Beh, ieri mattina volevo proprio correre. Mi ero autarchicamente imposto di preparare la borsa con il completino e le Mizuno rosse e far finta di essere runner. Tutto meraviglioso, ero perfino in anticipo. Dovevo solo comprare due o tre marche da bollo per quelle cazzo di fatture che avevo dimenticato di compilare, ma lo avrei fatto più tardi. Ecco, forse ieri mattina ho iniziato a maledirmi: perché non pago un singolo F24 anziché elemosinare ogni volta due o tre marchette? Perché non ne compro tipo dieci al mese e le lascio nel mio studio?
Ero in anticipo. Ok? Potevo permettermi di non fare nulla. Ma ero incazzato e, normalmente, non lo sono. Ero incazzato perché dovevo perdere del tempo per dei minuscoli valori bollati. Da due euro ciascuno.
Cerco il telefono, apro Facebook e scorro la timeline. In realtà non mi serve troppo tempo per arrivare a fermarmi: leggo quasi subito un post di un mio amico. Lo chiameremo Michele. Lo chiameremo così perché è il suo vero nome.
Il post è il seguente. Prendetevi un attimo di respiro.
Il 30 agosto mattina di due anni fa mi ha svegliato mio papà. Non succedeva da un bel po' di tempo!
Mi alzo e vado a vedere cosa fa mia mamma: sembra dormire serena, ma rimane così finché non se la portano via quelli delle pompe funebri.
Crolla tutto.
Tutto.
Sapevo della storia, almeno a grandi tratti. Credo, tuttavia, di non aver mai letto un incipit così. È una cosa talmente forte, intima, personale che mi sento sporco nell'averla letta. E mi sento tremendamente stronzo nell'averla letta tutta.
Avevo bisogno di correre. Questa volta per un motivo diverso.
A lavoro non ho fatto altro che pensare a quel post. Il motivo è semplice: il 30 agosto di due anni fa, una persona che conosco ha visto con i suoi occhi la stessa scena che ha descritto in modo così tremendamente distaccato. Con la potenza di venti parole e un numero.
Già, dovevo per forza andare a correre. Più che altro per metabolizzare una cosa che non so nemmeno spiegare se non ricorrendo agli stereotipati cliché da quattro soldi. Questa cosa è la fortuna. Con questo non voglio dire che Michele sia sfortunato o chi, per qualsiasi ragione, non può contare su un genitore lo sia altrettanto. Cinicamente contrappongo un altro concetto: è la vita stessa che implica, nel suo cosmico insieme, la possibilità della morte.
Devo correre. Pensare a questo dualismo mi fa pensare a quando, quella volta, dopo una corsa è iniziato tutto e quando, quella volta, dopo una corsa, è finito tutto.
Devo correre. Devo correre e scaricare sul suolo, tramite le mie Mizuno rosse, tutto questo.
Tutto finisce, anche la vita. Il caos di miliardi di cellule che torna allo stato fondamentale. Tutto torna a essere immobile e statico. Inerte. Non v'è ovviamente Dio e, men che meno, altro burattinaio dietro a questo processo. Credo, invece, ci sia una beffa. Tutto diventa tremendamente diverso per chi ha visto o per chi, di quell'immobilità, ne fa parte.
Diventa diversa perfino la voglia di rimanere immobili di fronte al fluire degli eventi. Più che altro diventa anziché diversa più difficile. Impossibile.
All'improvviso, in quelle due o tre marche da bollo per quelle due o tre cazzo di fatture, non ho visto né una seccatura né altro che possa essere negativo. Ho visto una cosa diversa: la mia fortuna. L'aggettivo possessivo assume un significato che non riuscirei mai a rendere con le parole, con qualsiasi termine e in qualsiasi lingua. Sì, sono fortunato nell'essere capace di incazzarmi per una marca da bollo. Che posso, in qualsiasi momento della mia vita, elidere tramite un versamento cumulativo tramite F24.
È vero, qui sono sempre stato Faber Chris. Ma questa volta, almeno per una volta, lasciatemi essere Fabrizio.