La ragazza nell'ombra – 2

by | Set 21, 2022 | Racconti | 0 comments

Procedette per qualche metro, lasciandosi alle spalle la porta aperta. Raggiunse in pochi passi la finestra che fronteggiava l'entrata attraversando una stanza molto grande. Probabilmente era il salotto, o almeno così parve. Solo quando fu sufficientemente vicino alla maniglia d'apertura tolse la mano dal viso. Sporgendosi leggermente riprese fiato, almeno fino a quando le vertigini non presero il sopravvento. In quel precario equilibrio nel quale l'olfatto e la paura di cadere giù lottavano per la supremazia delle emozioni pensò che sarebbe stato utile pensare a rendere comoda la casa. Dopo averla fatta arieggiare.
Qualcosa di organico era in avanzata decomposizione. Da qualche parte giaceva un ammasso di cellule e avrebbe dovuto scoprire dove. Sperava soltanto non si trattasse di un ratto. Il senso di vertigini ebbe la meglio e si distanziò dalla finestra e, soltanto in quel momento, sentì qualcosa frammentarsi sotto la suola in gomma delle sue Tommy. Gli parve di poggiare la scarpa sullo zucchero. Questa impressione svanì quando si rese conto che la vetrata era frantumata nell'angolo in basso a destra dell'anta sinistra.
«Non credo sia entrato un ratto volante», pensò compiacendosi della scoperta.
Si voltò e nel farlo vide la porta, ovviamente ancora spalancata, e ritenne che poteva rimanere tranquillamente in quel modo. Sentiva l'aria muoversi verso l'esterno e questo era un bene. Vide che all'entrata c'era un divano protetto da un telo di plastica spesso e opaco e che, probabilmente, era tale semplicemente perché impolverato. Alla sua sinistra vi erano due porte ambedue aperte a metà. Alla sua destra altrettante porte ma, questa volta, chiuse. Varcò la prima e vide ciò che, sicuramente, sarebbe stata la sua stanza da letto. Un armadio di colore grigio sovrastava uno dei due lati, quello opposto alla finestra. Dalla disposizione delle prese e degli interruttori ritenne che di fronte alla porta appena varcata vi fosse, una volta, un letto. Questo rendeva le cose ancora più interessanti. Avrebbe dovuto trovare, in poche ore, l'arredamento minimo per dormire, per lavarsi e per mangiare. Sull'ultima attività, tuttavia, aveva le idee ben chiare fin dall'atterraggio a Catania. Uscì dalla stanza da letto e, con un enorme senso autoironico, prese il cellulare, ne estrasse il pennino e scrisse sullo schermo: "Cose da comprare: letto".
Uscì dalla stanza da letto monca e si spostò verso l'altra porta aperta. La aprì ed entrò nel bagno. Fortunatamente era stato ristrutturato da poco, e scorse subito una meravigliosa doccia, rialzata di qualche centimetro, impreziosita da una base in cotto e da un mosaico abilmente posato lungo le pareti. Il vetro era satinato e non mostrava alcun residuo di calcare. Quella doccia fu la prima cosa che notò e si avvicinò ad essa, tra l'altro desiderando avidamente di poterla usare. Passò le dita sul mosaico e ne sentì la ruvidezza sui polpastrelli. Era un mosaico vero formato da centinaia di piccoli quadrati colorati incollati ad uno a uno sul muro. Di fronte a quell'opera di fine artigianato riprese il cellulare, spostò la scheda con su scritto cosa comprare a sinistra, e annotò – sempre con il pennino – qualcosa che in quel momento gli sembrava importante: "idea: stilizzazione di un mosaico". Stranamente, nel bagno, non v'era alcun fetore.
Decise allora di uscire e di percorrere il salotto trasversalmente. S'infilò dentro la prima stanza, lato finestra, con la porta chiusa e fu investito di nuovo dalla puzza. Questa volta, però, vide un pennuto, o almeno quello che ne restava, esattamente nel centro del piccolo locale. Probabilmente, riuscì di recente a entrare nella casa dall'apertura nel vetro e non ebbe modo più di tornare all'aperto. E la porta, con un po' di vento, si era chiusa tumulando lo sfortunato animale. Lo guardò compassionevolmente ed esclamò, senza esitare, delle importanti e solenni parole di commiato.
«Povero gabbiano».
Lasciò la porta mediana aperta e aprì la finestra che occupava una superficie talmente vasta da illuminare la stanza. Poggiò a terra lo zaino e, sempre con riverenza per il trapassato pennuto, utilizzò il telefonino per scrivere "tavolo da lavoro" sotto "letto". Dopo pochi secondi una folata di vento fece tremare tutte le porte e, in particolare, chiuse quella principale.
«La vicinanza allo Stretto!», esclamò guardando fuori dalla finestra. Si accorse che non aveva risposto a numerose chiamate e il telefono era colmo di notifiche da WhatsApp e da Telegram. Si morse le labbra e le ignorò. Pensò che sarebbe stato utile rendere onore al precedente coinquilino, parzialmente liquefatto sul pavimento, tramite degna sepoltura ma non aveva un giardino nelle vicinanze. Si ricordò di alcuni vasi di basalto che avrebbero potuto garantire il riposo al volatile. Erano accanto alla porta dell'ascensore, proprio all'entrata del condomini,o ma preferì non avere, da subito, i vicini contro.
«Me ne basta già uno», pensò, «e chissà come sono gli altri».

Sentì un trillo.

Era il campanello. Fu subito felice di questo suono perché, voleva dire, che almeno l'elettricità funzionava. S'incamminò verso la porta chiedendo, a voce stranamente alta, chi ci fosse dall'altra parte.
«Io… il portiere!», fu l'immediata risposta.
Non aveva ancora l'impronta vocale dell'uomo con la cravatta rossa e, per questo motivo, si fidò e aprì la porta. Lo vide sudaticcio e famelico d'aria. Il suo viso era rosso e non riusciva a rimanere dritto. S'appoggiò al muro e disse: «le ho portato la valigia, i tecnici verranno domani o al meglio oggi pomeriggio».
«Grazie, ma davvero non doveva», rispose con preoccupazione.
Lo fece istintivamente entrare ma si ricordò subito dopo che non avrebbe potuto farlo sedere da nessuna parte.
Si slacciò totalmente la cravatta ed esclamò: «Quattro piani sono tanti, eh!», arruffando il naso subito dopo. La sua carenza d'ossigeno fu amplificata dalla percezione di quell'odore nauseabondo.
«Credo sia morto qualcosa qui. Topo?»
Rispose sorridendo: «No, piccione» mentre indicava la stanza adibita ad obitorio.
«Non si preoccupi, ci penso io!», disse sbottonandosi la camicia, «appena vorrà andare in città mi lasci pure le chiavi in portineria e allontanerò la carcassa».

L'interlocutore rimase sorpreso dall'utilizzo del termine "allontanare".

Il portinaio, complice un ritorno alla normalità dell'ossigenazione, tese la mano verso il nuovo inquilino: «piacere Giorgio», disse con un sorriso sincero.
Il sorriso fu ricambiato: «piacere Timidio!».
Gli zigomi di Giorgio s'abbassarono e le sopracciglia s'inarcarono. Mise a fuoco le sue labbra, come se se volesse ripetuto quel nome.
«Lasci perdere, Giorgio, è una lunga storia»

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