
«Arrivati!».
Guardò l'autista come se fosse spaesato. Aveva passato tutto il tempo fissando quel tablet; i suoi occhi erano stanchi. Durante il tragitto utilizzò il tempo per leggere le recenti notizie e per rispondere alle email. Vedeva le notifiche su WhatsApp ma decise, al momento, di ignorarle.
Era un po' nauseato dalla strada e pensò due cose. La prima, ovviamente, che l'idea di stare incollato allo schermo non fu delle migliori visto che aveva sintomi evidenti di nausea. La seconda, consequenziale, balenò in un lampo: l'autista avrebbe potuto fregarlo girando in tondo per decine e decine di minuti. Da quando lasciarono, lui e il tassista, l'aeroporto non avrebbe potuto quantificare né il tempo trascorso né la distanza. Sbirciò il tassametro e comprese meglio che aveva sprecato ben quaranta minuti della sua vita per circa ventitré chilometri.
«Grazie, quanto devo?» disse schiarendosi la voce. La sua camicia di lino era un po' sudata, si rese conto che il suo cavaliere non aveva acceso l'aria condizionata.
«Sono cinquantasette euro e settanta centesimi», disse l'autista senza nemmeno guardarlo in viso.
«Posso pagare con la carta di credito? Mi servirebbe la fattura».
Udì uno sbuffo e, subito dopo, vide il terminalino passato tra l'angusto spazio dei due sedili.
«Appoggi e metta il codice PIN appena lo chiederà.»
La transazione fu approvata in pochissimo tempo e, immediatamente dopo, il suo telefono vibrò. Scese dalla macchina, una Ford C-Max non troppo recente, ma tenuta bene, e sbirciò l'orologio. L'autista si spazientì. In piedi, sotto un sole molto poco educato, aspettò che il display mostrasse qualcosa. E quel qualcosa arrivò subito.
"Autorizzazione TAXI-MESSINA. €57,00. Non hai fatto tu questa transazione? Chiama subito questo numero"
«Grazie per lo sconto», disse in modo sincero. Non ebbe risposta.
Aprì il cofano e prelevò un trolley di colore giallo, con un nastrino rosso. Pesava un accidente, e pensò che – prima o poi – quella maniglia avrebbe ceduto devastando il contenuto per terra.
Chiuse con delicatezza il cofano, d'altronde era sempre una Ford, e udì il taxi sgommare via. Cercò di scollarsi la camicia dalla schiena e, nel fare ciò, alzò lo sguardo. Vide il palazzo. Sembrava proprio quello: la scalinata di marmo bianco conduceva all'entrata del pian terreno, delimitato da una decorazione di mattoni. La porta principale di possente ferro e dai vetri oscurati. La facciata era stata rifatta da poco e i condomini, probabilmente con molti litigi, avevano scelto una tonalità del beige che avrebbe messo d'accordo tutti senza spargimenti di sangue. Oppure cause eterne che, allo stesso modo, dissanguano tanto gli attori quanto i convenuti.
Faticò per vincere la gravita contro la quale il suo corpo e, cosa più importante, il pesante trolley lottavano. Alla fine, con un contributo extra di sudore, raggiunse il pianerottolo è pigiò, istintivamente, il tasto " 1 – Portineria". Dopo pochi secondi un trillo lasciò intendere che qualcuno aveva aperto. Spinse con la spalla il pesante portone che, per poco, non gli si richiuse in faccia e ammirò l'atrio. Era davvero ben fatto: lastre di pietra lavica formavano, nel pavimento, rettangoli simmetrici che racchiudevano una pavimentazione grigio scura. Le pareti erano dipinte di una sfumatura tenue del grigio, spazzate e impreziosite da corrimano di legno di radica lucido. Il soffitto era irregolare perché formato da lastre di legno finemente smussato poste in modo sfalsato tra loro. Tra esse affondavano dei faretti la cui luce era ben calibrata sia per intensità sia per temperatura colore. Era una luce calda, quasi giallognola, ma dava un senso di appagamento quando veniva riflessa dalle lastre di pietra lavica sommariamente levigate.
Tutto era tranquillo.
A pochi metri dall'entrata una struttura di legno interrompeva l'armonia geometrica dell'entrata. Si aprì una porta, davvero piccola, tanto piccola da non essere notata. Da essa sbucò un uomo sulla quarantina. Aveva la barba lunga, con accenni di grigiume ma molto curata. Una giacca elegante scura, una cravatta rossa, e una camicia bianca con un nodo doppio. Si avvicinò e chiese, con un inconfondibile accento Siciliano.
«Come posso aiutarla?»
Frugò tra le tasche, scartando gli scontrini appallottolati, e tirò fuori un mazzo di chiavi. Lo fece vedere al portinaio che, subito, non comprese. Girò la targhetta e vide l'illuminazione accendergli perfino la barba grigia.
«Ah, bene, immagino voglia andare al quarto piano ala sud. Almeno 4°-SUD dovrebbe voler dire questo. Mi avevano avvisato, ma è da molto che quella casa non è abitata. Non so cosa ci troverà», disse scusandosi sinceramente.
«Non si preoccupi», rispose con un sorriso, «vedrò nei prossimi giorni, la ringrazio!»
Tese la mano che fu subito stretta da quel simpatico portinaio. Dopo questa formalità, tra l'altro voluta, l'uomo appena spuntato dalla porta, tornò serio.
«L'ascensore. Ecco, non funziona. Vedo che il suo bagaglio è pesante, non è vero?».
«Abbastanza».
«Facciamo, ecco…. Facciamo così: si prenda tutto ciò che le serve, ecco… entri pure lì», disse indicando la portineria, «metta tutto in una busta che troverà nel primo cassetto, quello sotto il telefono, e appena l'ascensore sarà operativo potrà portare il suo baglio senza troppo sforzo.»
Annuì, come per accettare la proposta e fece due passi. Si avvicinò alla portineria e notò che l'uomo rimase fermo. Lo osservò come per chiedere spiegazioni ed egli, con molta calma rispose alla sua obiezione non verbale.
«Faccia con calma, sa… prenda pure ciò che vuole dal suo bagaglio. La sua privacy è rispettata!»
Annuì sorridendo. La pronuncia di quel termine inglese aveva qualcosa di strano ma, allo stesso tempo, intrigante. La "P" e la "R" sembravano rincorrersi tra loro quasi biascicandone il fonema.
Adagiò il trolley a terra, e esitò qualche secondo nel ricordare la combinazione del lucchetto. Era sempre stata 1506, la sua data di nascita. Il click fu la conferma. Estrasse delle magliette, un paio di pantaloni, il pigiama a righe e due o tre paia tra boxer e calzini. Corti. Nonostante avesse tolto qualcosa la valigia sembrava esplodere, cercò meglio e riuscì a strappare via un contenitore rigido nel quale aveva messo il kit di primo soccorso: dentifricio, spazzolino, shampoo e saponi vari. Aveva tutto. Richiuse il trolley, senza chiudere il lucchetto, e salutò.
«A tra poco», aggiunse il portinaio, «la ditta di manutenzione sarà qui in tarda mattinata. Si metta comodo, si faccia una docci… cioè non sto dicendo che ne ha bisogno», disse mordendosi la lingua.
«Non si preoccupi», rispose ridendo, «ho proprio bisogno di una doccia!».
I due si salutarono in quel modo.
Iniziò a salire le scale. I gradini erano di travertino lavorato e lucidato, stondati quanto basta per dare un aspetto ancora più elegante. Iniziò ad affrontarli mimando una corsetta, ma al terzo piano si dovette fermare per rifiatare. In effetti il suo orologio s'era illuminato. Questa volta non indicava alcuna transazione bancaria ma il messaggio era diverso: "allenamento iniziato. Corsa". I limiti della tecnologia, non era nulla che potesse assomigliare a una corsa.
Di fronte a lui una finestra che dava su una strada, cercava di orientarsi e riprendere fiato. Si appoggiò chinandosi. Non fece in tempo che, alla sua sinistra, la porta si aprì. Uscì un uomo, con una maglietta dei "Chicago Bulls", un po' stretta. Chiuse la porta con forza e lo scansò con una spallata. Nel fare questo spinse con il piede la busta colma di vestiario e di saponi. Sentì il rumore delle confezioni di plastica e sperò che fossero rimaste integre.
«Iniziamo bene», mormorò.
L'uomo, nel frattempo, aveva già percorso dei gradini ma, sentendo quel rimproverò, si voltò e diede una cattiva occhiataccia per poi scomparire. Sentiva i suoi passi attenuarsi e, dopo qualche secondo, percepì chiaramente il pesante portone dell'entrata colpire violentemente il telaio di ritenuta.
Controllò che nella valigia improvvisata non vi fossero liquidi, e non ve n'erano, e fece l'ultimo piano di scale. La sua casa era esattamente sopra a quella del vicino appena conosciuto. La targhetta del campanello non riportava nessun cognome. La porta era la classica e anonima porta blindata, con l'occhiello in vetro a tre quarti. Cercò la chiave, la trovò e la infilò dentro la serratura.
Click!
Spinse leggermente con la spalla ma si soffermò un attimo. Ancora prima di vedere la casa pensò.
«Eppure, mi sembra di averlo già visto»