Cappuccino – parte quattro

by | Feb 23, 2022 | Racconti | 0 comments

Il mattino dopo mi svegliai con un forte mal di testa. La luce trapassava le inermi tende con l'impavido obiettivo di riempire il luogo del mio riposo. Piccoli lembi di stoffa messi a protezione dalla veemenza del sole. Inutile dirlo: acquistate all'Ikea. Sentivo una sensazione strana in bocca e, istintivamente, mi venne da deglutire. Nel piccolo tratto in comune tra l'apparato respiratorio e quello digerente sentì perfettamente che stava scendendo solo aria. Non riuscivo a capire il perché… avevo ancora un sapore metallico in bocca. La testa mi faceva molto male e rimasi con gli occhi chiusi per qualche minuto ancora.

Dopo poco tempo iniziai a non sopportare la posizione e cercai il cellulare che, ovviamente, era in carica sul comodino alla mia destra. Pigiai il vetro di protezione, anche questa volta con relativa delicatezza. Subito dopo le mie aspettative furono tradite. Qualche messaggio su WhatsApp, decine di e-mail, notifiche su Instagram ma non v'era nulla su Telegram. Mi sarei aspettato (o almeno, il mio inconscio si sarebbe aspettato) decine di foto sul gruppo degli stronzi ma, quella sera, nessuno ebbe il coraggio di scrivere. Lasciai perdere il telefono e immediatamente un pensiero s'impossessò di me.

Quel pensiero: Fabio e del suo tumore.

Sì, creai un chiaro nesso di connessione possessiva tra la malattia e il mio amico e mi sembrò perfino crudele farlo. Come se le due cose ormai fossero visceralmente unite. Disposte in una spirale intrecciata l'una contro l'altra.

Mi venne in mente un passo della Bibbia:

La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno ancora sopraffatta.

Giovanni 1:5

Un'altra luce, quella che aveva ormai vinto la tenda, iniziava prepotentemente a saturare la stanza e questa cosa dava fastidio ai miei fotorecettori. Iniziai a vivere la giornata facendo una cosa che raramente faccio: sistemare il letto. Ebbi l'impressione di aver dormito come un sasso perché né le lenzuola né i cuscini mi sembrarono reduci da inenarrabili tatticismi bellici. Per la seconda volta in poco tempo pensai a una cosa, questa volta meno biblica. Una riflessione contro la quale spesso mi scontravo: dormire. Ovvio, tutti dormiamo. Chi più o chi meno, certamente. Il punto è diverso: riuscire a dormire a seguito di qualcosa che tecnicamente dovrebbe impedire di farlo. E quanto accadde la sera prima rientrava pienamente nella fattispecie. Riuscivo a trovare l'abbraccio di Morfeo nelle situazioni più impensabili che, normalmente, coincidevano con eventi tragici. Questa mia "capacità", diciamo così, era sempre motivo di scherno e di rimprovero. Soprattutto dagli stronzi. Ritengo questa cosa fortemente irrazionale e so anche che maturai questa convinzione l'ultima volta che non riuscì a prendere sonno per colpa di un evento che provò drasticamente la mia adolescenza.

Juventus-Real Madrid, disputata il 20 maggio del 1998. Finita zero a uno.

Quella notte arsa dallo scirocco, Mijatovic mise fine alle mie speranze di poter argomentare vestito di bianconero circa la supremazia della mia squadra. D'altronde avevo quindici anni e potevo contare solo sul Del Piero. Ne ero talmente consapevole che, quando la luna scomparì tra le colline, non ero ancora riuscito a prendere sonno. La mia testa era satura di pensieri: cosa avrei dovuto dire per giustificare Mark Juliano? Cosa avrebbero fatto di me i miei compagni di classe durante la ricreazione? E poi, avevo ancora nel sangue l'adrenalina di aver visto quella partita al bar con gli amici, salvo poi sgattaiolare via come un ninja al fischio finale.

La mattina dopo, ricordo, pioveva. Mi misi strategicamente nella parte anteriore dell'autobus, cioè tra le "femmine", occupando, di fatto, la zona cuscinetto tra i poveri pendolari e i teppisti disagiati delle ultime file. Per tutto il tempo fui fissato da una del primo; il suo sguardo trasudava di pena e d'imbarazzo segno certo che, anche lei, tifasse Juve.

Saturo di paura varcai la soglia. Il chiacchiericcio era evidente come era assolutamente pacifico che l'argomento del momento era la finale. Ma i miei occhi videro qualcosa d'inaspettato: una bolgia. I miei compagni di classe parlavano sovrapponendosi e mimando osceni gesti l'uno contro l'altro. Non v'era traccia alcuna di una teatralità ad personam e, semmai, di fronte a me si frastagliava un collettivo di persone che se soltanto avessero avuto un'arma non avrebbero esitato a sbucherellarsi con il piombo. No, nessuno mi avrebbe preso di mira. A meno che io, volontariamente, non mi fossi avvicinato a quello scarabocchio pulsante di mocciosi che, come me, subivano gli effetti di una vigorosa tempesta ormonale. Con la massima naturalezza feci ciò che ci si aspetta in un Liceo Scientifico: mi sedetti e iniziai a leggere e verificare i compiti. Dopo qualche minuto entrò la professoressa d'Italiano che, con un bestemmione, zittì tutti. Cadde il silenzio e s'appoggiò tra i banchi e le sedie vuote. Nessuno mi aveva irriso o insultato e compresi che né ai miei compagni né alla professoressa né al cosmo in realtà importasse qualcosa del singolo. Me compreso.

Fu quella l'ultima volta che non riuscì a prendere sonno la notte. Prendere possesso della razionalità dell'invisibilità cosmica fu una vera e propria illuminazione.

Dopo aver sistemato il letto, dopo aver deglutito aria, pensai nuovamente a quel passo della Bibbia."

"La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno ancora sopraffatta."

Per la prima volta scorsi la potenza di quell'avverbio che cambiò drasticamente la capacità portante di quella frase, di fatto invertendone il segno.

"La luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l'hanno ancora sopraffatta."

Dovevo risolvere questa cosa e l'unico modo che avevo per farlo era quello di calzare le scarpe rosse, uscire di casa e, nonostante il mal di testa, andare a correre.

[continua]

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