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Mi svegliai, ovviamente rincoglionito. Per qualche secondo pensai di essere troppo in ritardo per andare al lavoro, fino a quando – impastato tra le coperte – trovai il mio cellulare. Al tatto mancava il pennino, ma tenendone sempre uno di riserva nella giacca questa carenza non fu fonte di preoccupazione. Fuori era buio e, ciò, avrebbe potuto dire tante cose. Pigiai il vetro, non troppo delicatamente giacché percepii subito la protezione piegarsi mentre affondavo in essa. Facevo scivolare il polpastrello verso il basso, scoprendo finalmente la finestra di Telegram.
Noi ci siamo. Conferma anche tu e prenota 🙂
Mi ricordai dell'appuntamento e della birra. Ancora inebriato dal sonno accarezzai il mio viso sentendo la barba ispida. Forse avrei dovuto regolarla? No, non avrei avuto tempo e odio arrivare in ritardo. Vidi il pennino, poggiato in bella vista sul comodino dell'Ikea. Domandandomi cosa ci facesse lì ebbi modo di inserirlo nell'alloggiamento.
Il telefono s'illuminò. Era di nuovo Telegram.
Hai prenotato? Altrimenti la compri 'sta birra e la beviamo da te.
Giusto. Avrei dovuto prenotare, e in effetti era anche tardi. Composi il numero, ormai scolpito nella memoria, e con aria volutamente fredda dissi.
– Ciao, il solito tavolo per i soliti stronzi.
Dall'altra parte non vi fu alcuna sorpresa né preoccupazione. L'interlocutore si limitò a dire:
– A tra poco!
È vero. I miei amici, sono stronzi. Non che io sia meno stronzo di loro ma loro standardizzano il livello di stronzaggine. Riescono sempre a trovare la parola o l'azione meno opportuna quando il galateo, la scena o il discorso imporrebbe ben altro. Sono volutamente stronzi, ma con quei residui fecali ci scoliamo quella birra da non so quanto tempo. In tutto questo tempo siamo sempre rimasti coerenti su una cosa, e non è la stronzaggine: aiamo disillusi. Da tutto.
Ci siamo imborghesiti, probabilmente. Qualcuno ha messo su famiglia e qualche altro l'ha buttata giù. Qualcuno crea e analizza KPI, chiudendo tutte le notti con gli occhi stanchi, in un letto abbondantemente stratificato di coperte con il portatile obbligatoriamente in carica sul comodino sinistro. Sul destro, ovviamente, trova dimora e riposo il kindle.
Ma era già tardi per pensarci.
Cercai di rendermi presentabile, più che altro livellando l'anarchica barba. Il mento era ormai colonizzato dalle chiazze bianche. Inclinai il viso pensando che, soltanto qualche anno prima, era un rituale contare i peli bianchi. Adesso non potrei più e farei prima a calcolare i centimetri quadrati ceduti al candidume.
Erano davvero tanti.
Non so se la mia barba stia sbiancando per lo stress o sia fisiologicamente programmata a farlo. Penso, di più, per il secondo motivo. Durante la mia toelettatura mi ricordai che tempo fa avevo iniziato a collaborare allo sviluppo di un nuovo prodotto che, tramite un interferente endocrino, prometteva di modulare – se non bloccare – l'ingrigimento dei peli. Sapevo benissimo che non sarebbe mai passato dalla ghigliottina dei censori della sicurezza del farmaco, ma probabilmente potrei avere, sottobanco, qualche campione.
No, non avrebbe funzionato.
Il tragitto fu veloce e arrivai, in circa venti minuti, al Pub. Entrai e vidi Gianluca preparare un bicchiere bagnandolo sotto l'acqua corrente. Appena mi vide sorrise e mi apostrofò affettuosamente.
– Ecco! Il primo degli stronzi è arrivato.
– Disse lo stronzo ad honorem, risposi.
Gianluca fece brevemente parte degli stronzi. Anche se lui fu uno stronzo fugace. Scappò dal nostro gruppo quando incontrò una colombiana e fu subito amore. Puro, passionale e frizzante. Durò pochi mesi, ma quel tempo fu sufficiente per fare un figlio. Per dimenticare l'asfissiante delusione, non potendo uccidere Cupido con le sue stesse frecce, si buttò a capofitto in quel suo progetto che, mattone dopo mattone, diventò il pub. "Il pub degli stronzi". Sì, lo chiamò proprio così e su questa storia girano molte leggende. La più plausibile, o la meno assurda, è quella secondo la quale andò totalmente ubriaco a commissionare l'insegna e protestò energicamente quando gli suggerirono di cambiare nome.
Gianluca non volle mai spiegare il perché di quel nome.
Quel bicchiere non finì sotto l'acqua corrente per essere lavato. Probabilmente, mi aveva visto o, probabilmente, si ricordava della mia puntualità. Lo scolò vibrandolo energicamente e lo riempì di birra. Sentivo un odore acre, con una tonalità che sembrava elevarsi e svolazzare per l'area dalla combustione di una discarica abusiva. Di plastica.
– Toh, assaggia! – mi disse avvicinando il bicchiere mezzo pieno.
– Ma che è? – risposi con pochissima fiducia.
– Una IPA prodotta a Catania. O forse a Bologna sei passato al lato oscuro del vino? – controbattè incazzato.
Sorseggiai quella miscela di acqua e morte. La schiuma era densa e ben livellata. Lasciai che le mie pupille gustative i saturassero delle molecole contenenti in quella fusione improbabile. Bevvi lentamente, chiudendo gli occhi per concentrarmi meglio sul sapore.
– Quindi? – mi chiese.
– Sa di copertone!- risposi.
– Come piace a te!
– Esatto! Questa sera sai già cosa prenderò.
Poggiai il bicchiere sul bancone e aspettai. Non feci in tempo a controllare l'e-mail perché pochi minuti dopo la degustazione, a scaglioni, iniziarono ad arrivare i miei amici. Gli stronzi per meriti acquisiti. Ci sedemmo un po' a cazzo di cane, poggiando i nostri deretani alla meno peggio sulle sedie di massiccio legno. Ci sentivamo davvero a casa in quel luogo e potevamo permettercelo. Sapevamo già cosa prendere e questa cosa, in quel momento, fu per me un motivo di riflessione. Non credo di aver mai avuto modo, o forse necessità, di esplorare quel pensiero prima di quel momento ma non riuscì a metterlo da parte. Mentre il vociare sovrastava i nostri discorsi mi resi conto di quanto fossimo diversi. E questa diversità si poteva percepire solo nei dettagli, nelle piccole sfumature delle azioni che, da un lato, avevano una genesi stereotipata dall'eterna conoscenza e, dall'altra, dalla sensazione che quel rifugio forniva alla nostra percezione spaziale.
Diego. Ecco, Diego era sempre impegnato a controllare il telefono. E con sempre intendo proprio sempre. Le sue pupille si incollavano sui grafici e fornivano al cervello, nel modo più semplice possibile, le informazioni sui mercati.
– Ecco! Lo sapevo! Ho fatto un +10% con i Bitcoin ma sono a -5% con le obbligazioni.
Diego viveva per quella malattia che gli economisti chiamano trading. In realtà non sono soltanto loro a chiamarla così visto che è un termine di comune sentore. Egli non tardava a mostrare di essere l'apologeta della nuova economia. Appena possibile si insinuava nei silenzi tecnici, tra una discussione e l'altra, per convincerci a investire dei soldi, anche "piccolissimi tagli". Era specializzato su due mercati: il trading e le criptovalute. Diceva con convinzione quasi religiosa che fossero il futuro e che stavamo perdendo tante opportunità per colpa della nostra inedia. Ho sempre creduto che, in realtà, a Diego non importasse nulla del guadagno, ma facesse questo soltanto per sentirsi vivo. L'ho sospettato dal primo giorno nel quale ci parlò di questa sua nuova avventura. Diceva che aveva studiato molto, che aveva capito come sfruttare il mercato, i trend, le oscillazioni, i picchi e altri termini tecnici che chiudeva nei suoi pensieri quando, ogni mattina, alle sei e trenta in punto iniziava il turno in fabbrica. E ho sempre saputo che Diego, di soldi, ne ha persi molti in questi anni. Ci chiedevamo quanti, perché sembrava che le sue spese fossero ben più alte rispetto a quanto potesse guadagnare nelle otto ore passate in catena di montaggio. Qualche volta avevo pure discusso con Diego, cercando di razionalizzare questa sua nuova pulsione ma non vi fu nulla da fare. I suoi libri da quattro soldi, spesso scaricati gratuitamente tramite una newsletter, vincevano sulle mie anonime cellette colorate dell'Excel.
Quella sera ci raggiunse anche Andrea e questo ci sembrò strano. Nel gruppo Telegram fu l'unico a non rispondere. Ma questa sua presunta scortesia fu tacitamente accettata. Andrea era, senza dubbio alcuno, il femminaro del gruppo. Cambiava fidanzata con una frequenza paragonabile soltanto al numero di crisi del governo riportate in un anno. Se non fosse stato con noi lo avremmo immaginato con una chitarra a cantare una ballata di Bryan Adams, mentre la brezza marina bagnava i lisci capelli di una dottoranda in piena crisi esistenziale. Andrea sapeva benissimo dare soluzioni, perlomeno immediate.
Poi c'era anche Francesca. O, come la chiamavamo noi Murano. Questo soprannome le calzava a pennello. Il suo viso, le guance, il colore della sua pelle e perfino le spolverate sottili di trucco la rendevano sempre così bella. Certo, ogni tanto doveva metterne qualche strato in più di trucco. Spesso per coprire il risultato netto e feroce di nottate intere spese a sgocciolare lacrime dentro casa, dentro la macchina o calpestando rabbiosamente qualche anonimo marciapiede. Francesca non lasciava mai che si parlasse di lei. Mai. Ma noi sapevamo che non era né il nostro discorso né il luogo né altro il booster delle sue crisi solitarie; bastava che Murano stesse ovunque le fosse possibile combattere contro i suoi demoni. A volte ci chiedevamo se il trucco servisse per coprire solo i pianti, perché il dubbio delle botte è sempre stato etereo. Ma plausibile. Che fosse picchiata lo sospettavamo tutti, ma non avevamo mai avuto modo di scoprirlo. Forse nemmeno ci siamo impegnati seriamente. Sapevamo che la fibra che formava il vetro di Francesca spesso si rompeva, e rimanevamo tutti a pensare e scortare piccoli dettagli che ci potessero far capire se fosse anche una lacerazione fisica. Non potevamo esserne certi. Ma di botte, quelle che arrivano tramite parole e tramite silenzi ne aveva preso. Tantissime. E tutti noi dovevamo ancora affrontarla questa cosa, perché la piccola opera d'arte di Murano stava sbiadendo. Non la vedevo da tantissimo tempo, negli ultimi periodi il suo aguzzino morale (questo è pacifico) le aveva proibito tutto. Arrivando perfino a stilare una lista condivisa su cosa fosse possibile fare e cosa no. In quei frangenti, però si mostrava con buona volontà in altro modo: tramite i curatissimi contenuti su Instagram. Pietanze visivamente gustose e appaganti i cui ingredienti erano la felicità, il benessere, la voglia di stare ancora più bene. Ma non osavo pensare cosa accadesse dopo aver pigiato il tasto rosso, quello che porta tutto in off, compreso il teatro che per dieci o quindici secondi l'ha fatta stare bene.
Francesca. Ragazza meravigliosa. Penso che, nel passato, ci fossimo tutti innamorati di lei, chi più o chi meno; e non di quell'amore melenso e altalenante. I suoi modi, il suo sorriso, la sua ironia sono soltanto pochi aggettivi che avrebbero qualificato (e male) la nostra piccola Murano.
E poi era anche riccia.
Tra una portata e l'altra, com'è solito, riaffioravano i ricordi. Ne sono successe di cose in vent'anni ma, ogni volta, sceglievamo di ricordare soltanto le cose in assoluto più frivole. Le nuotate nel mare di Milazzo in mutande, a volte anche senza, l'incidente di Diego con la bicicletta, di quando quella volta lasciammo una mucca (dopo averla regolarmente comprata) nel giardino di Fabio.
Tra una IPA e qualcos'altro di beverino il mio orologio s'illuminò. Vidi un messaggio da WhatsApp, un numero sconosciuto. Pensai a qualche cliente e non ne volli sapere di prendere il cellulare. Poteva tranquillamente aspettare.
La sera trascorreva piacevole, l'alcol aiutava ad amalgamare tutti noi e renderci meno diversi l'uno dall'altro. Andrea continuava a fotografare in continuazione pietanze, anche quelle da lui non ordinate, per aggiornare gli status. Francesca ascoltava e sorrideva, Diego nascondeva il cellulare sotto il tavolo per sbirciare i grafici. Mi accorsi soltanto in quel momento di quanto fossimo estremamente diversi l'uno dall'altro. E probabilmente, oltre alla stima reciproca che ci univa, compresi il vero significato dell'abusato motto: la diversità e ricchezza. Però mi accorsi anche di una cosa anomala. Una figura sembrava essere in ombra rispetto a tutti noi. Fabio.
Ecco, Fabio. Quella sera era silenzioso. Ed era strano, perché normalmente ci mostrava orgoglioso le foto dei suoi viaggi. Si definiva un travel-blogger, almeno così la sua bio recitava. Credo che, in realtà, fosse un bravo ragazzo che aveva ereditato una montagna di soldi dai nonni. E li spendeva in viaggi. L'ultimo, a mia memoria, fu in Groenlandia. Mi ricordo che quando me lo disse dovetti fare mente locale per capire se, nel mappamondo, la Groenlandia stesse su o giù.
Mi riservai il diritto di farlo rientrare nel gruppo, anche perché le sue fotografie erano tecnicamente e artisticamente stupende.
– Fabio, dove ci porterai, almeno virtualmente, nel prossimo viaggio?
Lui esitò un po' nel rispondermi e lo notammo tutti.
– Andrò a New York – rispose, con un sorriso stentato.
– Ma non ci sei già stato l'anno scorso?-, chiesi.
– No, questa volta non vado per lavoro ma per altro.
Ci zittimmo tutti.
– Ho un tumore. Aggressivo, e proveranno su di me un metodo sperimentale per contenerlo.
In quel momento tutto sembrò fondersi all'interno di un film, girato con il bullet mode di Matrix. Tutto ovattato, tutto compresso, tutto inutilmente di contorno. Tutti mi guardarono, come se da me dipendesse la sorte di Fabio. Ma in quella celletta dell'Excel, i termini tumore, aggressivo e contenerlo fecero in modo che lo sfondo fosse rosso. Rosso scuro. Continuarono a guardarmi, nella piena definizione di bias di conferma. In sottofondo sembrava regnasse l'anarchia di suoni indistinti. Guardavano me, speravano dicessi che sì, conoscevo bene quel protocollo. Ma non era vero: non lo conoscevo. Non potevo dargli nessuna conferma.
Ero io il loro bias.
[continua…]