Grigio

by | Dic 29, 2021 | Racconti | 0 comments

«Ti ascolto».

La luce del grigio sole diventava ancora più soffocante in quella stanza quando, ogni sera, l'astro cercava riposo nascondendosi tra le colline. Nel tentativo di rendere meno anonima la loro casa, in quel quarto piano di uno sconosciuto condominio, cercarono di ampliare la superficie utile degli infissi. Ove possibile cambiarono le vecchie imposte, sostituendo l'ingombrante legno con un rifilato e sottile telaio d'alluminio. L'Amministratore non fu molto d'accordo ma, emulando Don Abbondio, lì lasciò fare. D'altronde era già un miracolo se quella casa fosse finita in affitto a qualcuno, figuriamoci se questo qualcuno l'avesse comprata.

Presero assieme la decisione di utilizzare dei vetri al piombo nella sicumera che avrebbero protetto il loro nido dalla veemenza estiva del sole del Mezzogiorno. Ma già dal primo inverno i conti iniziarono a non tornare. Lo spessore e la composizione dei vetri donava una tonalità spenta a tutta la casa, nonostante gli sforzi di tenerla in vita con quadri e con mobilio dalle dominanti cromatiche accese.

«Non, parli più, eh?», disse Clara con tono sicuro mentre si avvicinava al tavolo della cucina. Era di forma rettangolare, lievemente cesellato lungo i bordi. Lo acquistarono a quattro soldi da un rigattiere di provincia che, però, non poté fornirgli le sedie abbinate. Le rimediarono all'Ikea quando già compresero quanto quei vetri, quei cazzo di vetri, potessero impadronirsi di tutta la loro casa. Almeno per quanto riguarda il mood. Ovviamente le comprarono colorate d'arancione.  Nel lato corto, su una tra quelle sedie, era seduto Giorgio. Clara passò accanto a lui, esitando un attimo per riprendere coraggio subito dopo. Fece qualche passo, dandogli le spalle e – inconsciamente – pensò che lo stesso avrebbe in qualche modo risposto.

Non fu così.

Prima di sedersi, dalla parte opposta rispetto a quella del marito, frugò tra le tasche ed estrasse un cellulare. Lo appoggiò con il display rivolto verso il basso sul tavolo, e lo guardò. Il viso di Giorgio s'inclino verso il pavimento. Non v'era più possibilità che, in quel modo, i loro sguardi s'incrociassero. Lei provò vergogna, si alzò nervosamente e virò il suo esile corpo verso il frigorifero. Non v'era molto dentro ma, tra quelle cose che non dovevano mai mancare, trovò immediatamente una bottiglia d'acqua frizzante. La prese e, ancor prima che uscisse fuori dal dominio di quell'elettrodomestico, l'osservò minuziosamente, quasi come a volerla venerare. Diresse il suo sguardo verso sinistra e prese un bicchiere di plastica tornando, in breve tempo, alla sua seduta. Riempì quel bicchiere con molta calma, e sentì – o almeno le parve di farlo – ogni singola bollicina di anidride carbonica scappare dal liquido che la teneva intrappolata. Il gorgoglio di quel piccolo e artificiale ruscello fu interrotto da un tuono che, stranamente, non fu annunciato da nessun lampo. Quel contenitore di plastica era ormai colmo, e con la punta delle dita lo avvicinò verso di lui. Ascoltava il rumore prodotto dal contatto della plastica con la melamina che rivestiva il piano opaco del tavolo sentendone l'attrito. Sembrava che quel sistema potesse essere in grado di emettere, tramite quelle flebili onde sonore, una sorta di sofferenza. Il suo braccio era teso e per avvicinare ancora di più l'offerta dovette estendere le dita.

«Hai deciso di non dire nulla? Va bene. Parlerò io allora», disse. La sua voce divenne, più acuta. Tremava. Si rese conto che era la prima volta che parlava al marito in questo modo. E si sentì tremendamente in colpa per questo. Continuò: «sei stato bravo a mentirmi per tutto questo tempo, sei stato furbo a far quadrare sempre tutto. Il tuo stress era una scusa, i tuoi impegni erano diversivi, le tue assenze erano privazioni volontarie. Hai sempre detto a tutti che il tuo era malessere. No, Giorgio. Non era malessere. La tua era corruzione».  Sentiva i piedi pesanti e le gambe, allo stesso tempo, deboli come se fossero state private dei muscoli e dei tendini. Il suo viso formicolava, tutto era sfocato e, per giunta, schifosamente grigio. Poggiò i gomiti sul tavolo e si tenne il viso tra le mani. Un attimo dopo sentì il sapore acre e salato delle sue lacrime.

«Non ti preoccupare, l'ho sbloccato».

Alzò lo sguardo. Timidamente. Si sentì strana poiché, anche quella fievole gradazione di luminosità sembrava accecarla. Guardò quel cellulare e poi s'accertò che suo marito non la stesse, a sua volta, guardando. Da un lato aveva paura di quello sguardo che, così tante volte, l'aveva zittita. Dall'altro lo cercava disperatamente e, mai come in quel momento, ne avrebbe avuto bisogno. Fu in quel momento che comprese che, ogni volta, le traiettorie tracciate dai loro occhi formavano una linea di confine. Una retta o, meglio ancora, un punto di non ritorno. Oltre quello sguardo, qualsiasi cosa fosse accaduta dopo, sarebbero sopraggiunte le botte. E Clara ne aveva preso di botte. Tante.

Cercò di sciogliere la treccia ma non ci riuscì, vide che tra le dita vi rimasero impigliati dei capelli. Si ricordò di quanto fosse bella. E quei capelli ne erano la prova. Biondi, lisci, folti. Li pettinava per ore, non per bisogno estetico, ma per carezzarsi. Rimaneva ore di fronte allo specchio del bagno, anch'esso Ikea, e li spazzolava. Le punte, dapprima, e poi dalla radice in giù. Quella piccola stanza, di pochi metri quadri, era un palcoscenico. Il suo palcoscenico. L'unico punto della casa che non era avvinghiato dalle tenebre prodotte da quei vetri piombati. E quando erano talmente lisci da rasentare la pura razionalità geometrica li spostava, da una parte o dall'altra. E si ammirava. Non v'era nulla di vanesio né, peggio ancora, nulla di patologico. Adorava i suoi capelli. Li guardava, ogni volta, con lo stesso stupore di chi vede per la prima volta una recondita ambizione avverarsi. Adorava i capelli. Adorava i suoi capelli. Anche quando il suo viso era tumefatto dalle botte. Li adorava perfino quando picchiava così forte da sporcarli di sangue. Li spazzolava con gli occhi gonfi di lacrime. Oppure d'altro. Li spazzolava quando la strattonò così forte da lussarle una spalla, e anche in quel modo, così sbilenca lei era bellissima. Pensò di spostarli più sulla destra così "posso bilanciare questa spalla sinistra che proprio di star dritta non ne vuole sapere". Continuava a spazzolarli anche quando vennero i soccorsi e dovette spiegare che: "nulla, sono scivolata di fronte a quel frigorifero. Sì, quello in cucina. Cercavo l'acqua frizzante per mio marito ma avevo dimenticato di comprarla e niente, forse a terra era bagnato, o forse un capogiro e niente… cioè niente davvero, sono caduta. Niente.".

Niente.

«Non te lo aspettavi, vero? E ti dico la verità, nemmeno io», disse girando il telefono che s'illuminò. Lo guardò mentre il suo sguardo cadeva ancora di più verso il basso offrendo metaforicamente le orecchie alla sua interlocutrice, la quale continuò: «Non ti aspettavi che fosse possibile. Questa mattina quando, alla radio, quei due conduttori dissero che "i moderni smartphone sono potenti ma stupidi, li puoi sbloccare semplicemente parando di fronte una foto" non ci credevo. E non v'era malizia in quello che ho fatto. Tu dormivi, stravaccato in quel divano e io ho provato a vedere se fosse vero. Ridevano troppo quei due per essere vero. E invece lo era».

Esitò.

Pensò a come continuare e, spaventata, sobbalzò dalla sedia, tanto da allontanarsi istintivamente dal tavolo. Giorgio inclinò la testa e fu in quel momento che lei vide i suoi occhi. Aveva fame d'aria ma volle continuare, forse per la prima volta.

«Non è vero. Forse volevo vedere cosa tenevi dentro quel telefonino. E volevo capire perché sentivi la necessità di avere ben due telefoni quando non mi risulta ti servano a qualcosa. E lì ho visto. Ho visto tutto. Ho letto tutto. Tutto».

Ciò che avvenne dopo, durante quella conversazione, fu un crescendo di emozioni. La paura si risolse in rabbia. Non riuscì più contenerla dentro di sé. Afferrò saldamente il telefono e lo scaraventò sul tavolo. Temette di averlo rotto ma funzionava ancora. Sfiorò il display e vide, di nuovo, tutto. Sgranò gli occhi.

Cercò per l'ennesima volta il suo sguardo e placò le sue paure. Il suo respiro si fece sempre più ritmato. Sentiva nuovamente le gambe. Fissò quel display e compose un numero, tenendo il pollice sul tasto verde che avrebbe fatto partire la chiamata. Aveva trovato il climax e, forse per questa ragione, rivolgendosi al marito disse: «Sai perché nonostante tutto io sia ancora qui con te? Perché nella mia vita grigia sei stato – e non chiedermi come – la mia prigione, il mio grigio ma – allo stesso tempo – il mio tutto. Adesso non ti preoccupare… è passato. Andrà tutto per il verso giusto, amore mio».

Si alzò. Tenne il cellulare con la mano sinistra e premette quel tastino verde. Avvicinandosi, passo dopo passo, a suo marito sentì la chiamata in partenza. Il primo squillo, poi il secondo e il terzo subito dopo. Una voce distratta disse qualcosa, d'incomprensibile all'inizio e sufficientemente chiara solo dopo qualche secondo.

Dall'altra parte qualcuna gridava "Pronto? Pronto? Pronto?".

Si chinò verso suo marito, spostò i suoi capelli mossi e brezzolati e sentì il sangue scorrere tra le sue dita.

Sistemò una ciocca per coprire il foro d'entrata.

Avvicinò il telefono all'orecchio e disse: «Mi chiamo Clara, sono dentro il mio appartamento e ho da poco ucciso mio marito. E la stanza è adesso meno grigia».

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