A me il cappuccino piace, e piace anche tanto. Sorseggiare un cappuccino rappresenta uno dei miei pochi momenti liberi nel quali non penso alle statistiche, alle fatture, allo spostamento di bit. Non penso nemmeno agli amiloplasti. Per questo motivo deve essere esattamente come piace a me: schiumoso, non troppo caldo e con poco caffè. Quando posso permettermi di non pensare alle cose appena menzionate – per più di cinque minuti – il mio "premio" va ricoperto con uno strato di cacao, mai zuccherato, in modo tale che possa mischiare la schiuma superficiale e – successivamente – strapparla al resto dell'emulsione tramite avide cucchiaiate.
Amo il cappuccino. Da sempre.
A Bologna ero solito passare da Via Indipendenza. Passavo sotto i portici ogni mattina per raggiungere la stazione Centrale. Ad angolo c'era un bar, gestito da Teresa, che mi aveva accolto praticamente come un figlio.
– Faber il solito?
– Sì.
– Cappuccino schiumoso, freddo e con poco caffé.
– Tere', non freddo ma…
– Sì, sì Faber, tiepido. Tiepido…
Teresa era una signora sulla quarantina. Non le ho mai chiesto né se fosse sposata né se avesse figli. Per me lei fu un'isola felice in quella mia, ristretta, esperienza Bolognese. Sì perché gli Emiliani di qualche anno fa erano diversi dagli Emiliani di fine anni '90. Sono più incazzati, più freddi a volte più iracondi. Sono un po' come dei Padovani senza lo spritz, dei Milanesi senza il fatturato o dei Trentini senza il Mu.Se.
Teresa non era così.
A volte mi chiedeva come fosse andata la giornata quando, percorrendo la via inversa, mi vedeva con gli occhi spenti. Pareva davvero interessarsi delle mie statistiche, delle mie fatture e – perfino – degli amiloplasti. Più volte fece spallucce come se volesse, virtualmente, consolarmi. E capiva benissimo che quel cappuccino rappresentava uno dei momenti più importanti della mia giornata, almeno dal punto di vista che abbraccia l'egoismo latente.
Un giorno d'autunno, quando già il sole aveva deciso cosa fare di sera, arrivò una e-mail. La lessi prima di andare a dormire, con il mio viso pudicamente illuminato dalla luce del tablet. Un cazzo di iPad aziendale. In sintesi, la mia missione emiliana era terminata. I risultati erano ottimi, ben oltre le aspettative. Seguì una lista di KPI pienamente raggiunti, avvalorati dal verde acceso delle celle che contenevano il risultato.
"Faber, vorremmo con il suo parere favorevole, ricollocarla in una zona diversa. Abbiamo già prenotato una nuova sistemazione a Roma, zona EUR."
Parere favorevole, ricollocarla, nuova sistemazione. Mi sentii come una regina spostata nella scacchiera Italiana. La mia posizione sulla cella derivava direttamente dall'offesa potenziale arrecata al mercato. Già, rimasi proprio così: attonito, con un cazzo di iPad aziendale in mano.
Avevo due giorni per abbandonare quella casa. La burocrazia, le spettanze e ciò che serviva per chiudere il contratto era una palla che sarebbe passata, già da subito, alle risorse umane e all'amministrazione.
Non ricordo che sogno feci quella notte ma ho in mente che mi svegliai in modo diverso dalle altre volte. Certo, avevo lo sbattimento di preparare i pacchi per il trasloco, imballare tutte le cose in modo tale da sistemarmi nella Capitale con il massimo profitto in termini di tempo speso per tornare a essere operativo. Dovevo imballare certosinamente le mie cose, i miei vestiti, i miei computer, la mia fotocamera e perfino i libri. Mi si chiedeva di essere ciò che, nella vita, non sono e non sarò mai: lineare e ordinato. Decisi di portare in macchina le cose più importanti (i computer, un set di ricambio per essere decente almeno per due giorni, la fotocamera e "Il Maestro e Margherita"). Con queste, poche cose, potevo impiantarmi in qualsiasi posto e sbocciare esattamente come potrebbe fare il tessuto meristematico di qualsiasi pianta.
Passai da Teresa, quella mattina il sole era più prepotente del solito. Il mio viso rubicondo trovò sollievo all'interno del bar dove lei era occupata a parlare con un fornitore. Sentivo la loro discussione e pensai che, quel signore in giacca e cravatta, stava utilizzando molto male il concetto di up-sell: perché mai vendere dei cornetti surgelati senza proporre una glassa da spalmarci sopra? Immaginavo un KPI negativo, colorato di rosso. Ovviamente non intervenni e mi spostai verso il bancone.
Di fronte a me vidi una ragazza, con un grembiule nero cucito con uno spesso filo rosso. Questa cosa mi sorprese: osservo tutto, annoto nella mia memoria associativa qualsiasi cosa, lasciando che anneghi nel mare dei miei neuroni. Lei, invece, non l'avevo mai vista. O almeno, credevo di non averla mia vista prima.
– Ciao, vorrei un capp…
– Margherita, un cappuccino schiumoso, senza cacao, poco caffè e non troppo caldo per Faber.
– …
– Faber, lei è Margherita.
– Come quella del Maestro e Margherita?
(Nella mia personale deissi, quel pronome dimostrativo, si riferiva alla protagonista del libro, ma – ammetto – che in quel contesto fu davvero troppo sgarbato.)
– Eh sì, proprio come quella Margherita.
Quel cappuccino era davvero buono. E la bontà derivava dal quantitativo d'aria intrappolato nell'emulsione lattea. Sembrava che non vi fossero bolle d'aria ma vere e proprie camere, ciascuna delle quali era delimitata da una sottile parete formata dal latte misto al vapore acqueo. La temperatura era perfetta, non sarebbe stata tale né con mezzo grado in più né con mezzo grado in meno. Il caffè, il caffè! Lo aveva fatto roteare all'interno della tazza in modo tale da raffreddarlo e da lasciare un piccolo strato affinché il latte potesse assorbirlo.
Fu il miglior cappuccino della mia vita, e lo è tutt'ora.
Non so per quanto tempo rimasi, dopo averlo consumato, fermo a gustare quell'esplosione orgasmica che le mie papille gustative trasmettevano alla corteccia e al sistema limbico.
Teresa, invece, se ne accorse e mi disse:
– Faber, tutto bene?
– Sì, questo cappuccino è fenomenale. Brava Margherita, promossa!
– Grazie! Davvero grazie!
– Tere', penso che questo sarà il penultimo cappuccino qui.
– Come mai, Faber?
– Mi spostano, vado nella Capitale.
– Ah, te lo aspettavi?
– Sì, ma non adesso.
Pagai, salutai e andai a prendere il treno.
La stazione di Bologna è sempre intrisa di magia.
Il giorno dopo andai a salutare Teresa, con l'ultimo cappuccino della mia carriera Bolognese e, probabilmente, Emiliana. Lei era lì, dietro il bancone, e appena mi vide iniziò a creare la mia ricompensa Pavloliana. Quel giorno, però, accadde una cosa mai successa prima: Teresa non mi volle fare pagare.
– Faber, che sia il tuo ultimo ricordo piacevole di questa esperienza Bolognese.
– Tere', tornerò.
Sapevamo che non era vero. La sera ero su un treno che mi avrebbe portato, in poche ore, a Roma dove mi attendeva – per almeno una settimana – una vita in hotel. Poi, la routine.
Negli anni successivi vi furono numerose ricollocazioni. Tutte dipendenti dal mio parere favorevole. Andai in Lombardia, in Trentino, in Umbria, in Friuli e perfino nel Molise. Ogni volta vedevo quelle celle verdi dell'Excel, quei KPI orgogliosamente marcati nel colore della natura con dentro un testo colorato come il bianco delle notti passati al PC. Iniziavo a credere davvero che l'Eurasia avesse sconfitto l'Estasia e che fossimo da sempre stati in guerra contro l'Oceania. Comunque sia: no, in questi anni non ho imparato a organizzare un trasloco.
Questa routine ha capillarizzato la mia vita negli ultimi anni. Ma stamane è accaduto qualcosa di piacevolmente inaspettato. Ero all'aeroporto di Catania quando sentivo una mano appoggiarsi sulla mia spalla. Mi girai e vidi un viso apparentemente sconosciuto.
– Non ti ricordi di me, vero?
– Perdonami, no.
Risposi cercando di ripescare qualche ricordo, prendendolo dal mare sempre in tempesta dei miei neuroni. Ma non riuscivo a capire chi fosse quella ragazza. La guardai per qualche secondo e mi sentii a disagio.
– Sono quella del libro.
[silenzio]
– Oddio! Scusami Margherita! Ma quanto tempo è passato?
– Beh tanto!
Ero davvero sorpreso, mai avrei pensato di ritrovarla. Meno che mai di ritrovarla lì. Mi disse che era di passaggio e che avrebbe trascorso qualche giorno in Sicilia. Era mattina presto e, nell'auto a noleggio, c'era posto per due visto che dovevamo fare un pezzo di strada assieme. Mi raccontò un po' della sua vita, della sua laurea, della sua indipendenza. Era strano, questa mattina. Sembrava che queste cose le sapessi già esattamente un attimo prima che lei me le raccontasse. Dopo pochi chilometri mi chiese di fermarmi all'autogrill e di rimanere in macchina.
Me lo disse sorridendo.
Scomparve per pochi minuti e tornò, goffamente, con due bicchieri. Si stava ustionando. Litigai un po' con la chiusura centralizzata della macchina e, dopo aver trovato il modo per sbloccarla, scesi per darle una mano. L'odore del caffè bruciato, tipico dei bar disseminati lungo le autostrade, era inconfondibile.
– Il tuo cappuccino!
– Grazie!
Sorrisi anche io di fronte a questa, buffa scena. Il cappuccino, ovviamente, faceva schifo. Provai a berlo ma decisi di affidare all'indifferenziata buona parte del residuo rimasto, impietosamente, appiccicato al contenitore. Lo stesso fece lei, ma con molta più grazia.
– Eppure quel cappuccino, mi salvò la vita, sai?
A quella sua affermazione rimasi sulle mie.
– È una lunga storia.
[continua]