
È la prima volta che commento un fatto realmente accaduto. Qualche giorno fa, a Milazzo, il vento animava il mare. Chi abita in zone costiere sa che è normale vedere le onde alte diversi metri a fine settembre. Sarebbe sconvolgente il contrario. Questa volta lo erano particolarmente.
In questa storia ci sono poi due ragazzi. Tredici e quindici anni. Sono in spiaggia. Due piccoli puntini che voltano le spalle al vento e a quelle onde.
In qualche modo due finiscono in acqua. I soccorsi sono allertati e dopo eventi che, a oggi, sembrano di difficile ricostruzione prestano ausilio due o tre persone appartenenti alla Guardia Costiera. Da qui in poi posso solo ipotizzare cosa sia accaduto. Un uomo, mosso dal nobile istinto di salvare un ragazzo, si è tuffato in acqua per cercare di recuperarlo. Il ragazzo è tornato ma l'uomo no.
È morto.
Il suo corpo verrà restituito il giorno dopo, quando ormai del vento non c'era troppa traccia. Il fatto è ovviamente sconvolgente. Ma è interessante, almeno dal mio punto di vista, analizzarlo e sottolineare un netto contrasto che delinea tra le due storie. Quella dell'uomo morto, da molti definito Eroe, e quella dei due ragazzi.
Da un lato una persona matura. Dall'altro, probabilmente, due incoscienti. Perché, diciamocelo, soltanto un incosciente può pensare anche di permanere in spiaggia in quelle situazioni. Io, che di anni ne ho molti di più, avrei avuto perfino paura di ammalarmi.
Quando ho appreso la notizia ho chiamato un mio amico. E gli ho chiesto se avesse memoria di una cosa: di quando eravamo noi gli incoscienti a sfidare Eolo e Poseidone.
Già, perché anche noi abbiamo fatto questo e lo abbiamo fatto molte volte. Anche noi cercavamo la tempesta per divertirci a finire dentro le onde alte. Lo abbiamo fatto in condizioni probabilmente peggiori rispetto a quelle di qualche giorno fa. E ricordo perfettamente di essere arrivato a riva stremato, senza fiato e con le braccia e il petto dolenti.
Sapete perché?
Eravamo sbruffoni? Volevamo sentirci invincibili?
No. Nulla di tutto ciò.
Eravamo incoscienti. Nell'eterna valutazione del bene e del male, di così Kafkiana memoria, tra il beneficio e il costo noi valutavamo solo quanto era presente nel numeratore. Eravamo incoscienti come lo erano probabilmente quei ragazzi. Dico probabilmente perché, in effetti, a oggi non è chiaro cosa sia accaduto. E questo è un punto fondamentale.
Dall'altra parte c'è una persona che finisce in mare in mutande. Un gesto di una potenza così assurda che fa scendere le lacrime.
Poi accade qualcosa. L'esercito dei social si sveglia. Vedo persone che pedissequamente scrivono, parlano e blaterano. Queste persone vivono in una realtà che è descrivibile come matrix al contrario. Dove la vita reale è alterata da quella intrappolata tra server, client, social network e connessioni internet.
Viviamo una vita di merda per rifugiarci in un posto che libera endorfine. Peccato che questo posto non esista.
La morte. Atroce.
Il destino dell'uomo disperso era, in quelle ore, ancora da decidere ma tribunale della gente aveva già sentenziato: morte ai due ragazzi. Nella classica rappresentazione degna di Shelley quei due ragazzi avrebbero dovuto morire per mano violenta. In una delle varianti, invece, dovevano rimanere vittime di quelle onde. In una sorta di Legge del Contrappasso, però istantanea.
In questi casi vado sempre di fronte a un cortocircuito logico: come si può mitigare il dolore di una morte attraverso un'altra morte? Il bilancio netto non è pari a "n" morti, dove "n" è sempre un numero maggiore di uno? O mi sfugge qualcosa?
Ho letto cose davvero stomachevoli. Persone che, in preda alla frenesia, hanno augurato la morte per percosse, per annegamento perfino per eviscerazione. Parliamo sempre di due ragazzini la cui storia scritta in quel giorno non è per nulla chiara. E mi chiedo: come sia giustificabile questa violenza, indipendentemente da chi sia il ricevente della stessa. Com'è possibile tutto ciò?
Com'è possibile che non vogliamo educare i nostri figli e auspichiamo cose così immonde per gli altri?
L'inversione del soggetto
Una tra le risposte che colmano la domanda precedente è questa: il soggetto da odiare, in realtà, non esiste. O almeno non è definibile né in una entità né in una persona. L'odio va veicolato verso qualcosa, esattamente come il fascio radioattivo colpisce la fetta di tessuto in una T.A.C. Può essere un muscolo, il cervello, un rene. Ma qualcosa deve diventare un bersaglio.
Invertendo – almeno una prima volta – il soggetto, sono più che certo che se quel ragazzo non avesse mai toccato riva, allora l'odio sarebbe stato veicolato contro il povero cristo che – nella realtà – ha davvero perso la vita.
"Era meglio se non fosse mai buttato. A chi doveva fare ridere in mutande?"
"Io con due bracciate avrei salvato tutti!"
Non importa chi, cosa, dove e per quale motivo ha compiuto qualcosa… l'importante è trovare una persona (ovviamente debole) sulla quale vomitare odio.
E questa è soltanto la prima inversione del soggetto. La seconda è molto più intima. Chi "odia" in modo seriale, in qualche modo, è in qualche modo spostato. Non sono uno psicologo né uno psichiatra.
Non saprei dire se chi, di fronte allo schermo di un PC o del telefonino, riesce velocemente a attraversare lo specchio sia disturbato.
Né posso definire questo scostamento come manifesto o subliminare.
All in all it's just another brick in the wall
All in all you're just another brick in the wall
Pink Floyd – Another brick in the wall (pt. 2)
Ma credo che, chi arrivi ad augurare la morte a un ragazzino non stia molto bene.